Prendete uno spruzzo di supereroe, aggiungete un pizzico di umorismo, irrorate con effetti speciali mutuati dalla fantascienza, mescolate il tutto in salsa cartoon style e otterrete “The Green Hornet”, l’ultima fatica cinematografica del bravo Michel Gondry. Un incrocio di stili visivi e narrativi molteplici, che traggono però tutti la loro origine nel mondo dei cartoon, o che forse ne sono gli artefici.
La trama della pellicola è piuttosto classica e ricalca gli stereotipi dei film sui supereroi. Britt Reid, figlio del maggiore magnate dei media di Los Angeles, conduce un'esistenza sregolata fino alla misteriosa morte del padre, che gli lascia l’impero economico ma anche grandi responsabilità. Dopo aver stretto amicizia con un uno strano impiegato del padre, Kato, decide di dedicare la vita a combattere il crimine, diventando però a sua volta fuorilegge e infrangendo la legge al solo scopo di proteggerla. Britt diventa il Calabrone Verde mentre Kato costruisce The Black Beauty (tradotto in italiano con “la pantera nera”), una macchina indistruttibile. Costruendosi una reputazione a colpi di buone azioni arrivano allo scontro finale con il boss della “mala” di Los Angeles: Benjamin Chudnofsky.
Il cast riscatta senza dubbio la trama, a partire dal regista Michel Gondry (“Be kind rewind”, “Se mi lasci ti cancello”, “L’arte del sogno”) che si diverte a creare uno schema riconoscibile per lo spettatore per poi ribaltarlo nella scena successiva. Seth Rogen (“Funny people”, “SuXbad”, “Molto incinta”) è Britt Reid, una versione leggermente sovrappeso e goffa dei più quotati supereroi Marvel mentre Jay Chou (“Initial D”, “La città proibita”, “True legend”) è Kato, la spalla destra del calabrone, un ruolo che fu di Bruce Lee diversi decadi fa. A completamente non si può dimenticare Cameron Diaz (“Charlie’s angels”, “Vanilla sky”, “Gangs of New York”) nei panni dell’assistente personale di Britt e un convincente Christoph Waltz (“Bastardi senza gloria”) nei panni del cattivo di turno.
Più che guardare gli aspetti costruttivi del film è interessante analizzare la decostruzione di generi operata da Gondry. Il cineasta ha utilizzato elementi presi a prestito da molti differenti generi con il risultato di confezionare un prodotto, a suo modo, imperfetto. La mancanza di un filo conduttore nello stile spiazza e attrae lo spettatore più smaliziato, che troverà nel gioco del regista un motivo interesse particolare, alla continua ricerca di omaggi e citazioni. D’altra parte il personaggio del Calabrone, nato qualche anno prima di Batman, ha diverse attinenze con il cavaliere di Gotham city, così come l’idea che da grandi poteri derivino grandi responsabilità richiama immediatamente Sam Raimi e il suo Uomo Ragno.
La rappresentazione risulta però efficace anche per chi ha un approccio più leggero e vuole solo godere delle quasi due ore di estetica filmica a cui Gondry ci ha abituato da Eternal Sunshine of the Spotless Mind in poi. Le scene d’azione, unite ad una buona dose di umorismo garantito da Rogen, funzionano alla grande ispirandosi in parte a Matrix e in parte ai film polizieschi (per gli inseguimenti a bordo delle auto).
Ancor più divertente è poi andare a scoprire le sorprese che nasconde il personaggio di Green Hornet. Nato nel 1936 per una trasmissione radiofonica è in seguito apparso su più media: ha al suo attivo una serie televisiva, un serial cinema tografico (risalente agli anni ‘40) e diversi albi a fumetti ma la vera novità erano le caratteristiche che possedeva. Innanzitutto La doppia identità, una novità per quei tempi, tanto che assomiglierà molto al Bruce Wayne di Batman. Stesso discorso per la presenza di Kato, che di fatto crea un duo caratterizzato da un leader e un aiutante in secondo piano. Il crossover è poi totale se si avanza fino agli anni ’60, quando Kato (Bruce Lee) e il Calabrone verde hanno fatto alcune apparizioni nella serie televisiva di Batman.
Insomma, non ci sono più le certezze di una volta. Oggi anche un semplice film con un supereroe è costruito su più livelli, stratificati nei corsi e ricorsi mediatici che dagli anni ’30 ci fanno costantemente compagnia. Sembra aver metabolizzato bene quest’idea Gondry, che è riuscito nell’impresa di impacchettare un film godibile da tutti senza per questo risultare scontato o prevedibile.
Di sicuro il regista ci ha abituato a lavori di ben altro spessore ma ci lasciamo convincere che questa volta si tratti solo di un divertissement, seppure convincente. Con buona pace di chi crede ancora negli impomatati (e musoni) eroi patinati degli anni ‘60.
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